Al di là delle decisioni di queste ore, che riguardano la composizione del prossimo Governo di transizione o di responsabilità, destinato a passare alla storia con il nome di secondo “patto Gentiloni”, continuano a succedersi le analisi sul flusso del voto degli italiani e sul risultato del referendum del 4 dicembre scorso.
Renzi ha perso? Ha vinto con il 40{cbd9c1faeba5711866380b8c9dfc181d05577eef0adb5294792d39edd3158544}? I cittadini italiani hanno votato contro la politica messa in campo dal suo Governo? Cosa riporta davvero in superficie il voto del 4 dicembre?
Se solo riuscissimo a spostare l’attenzione dall’elemento politico di tutta la vicenda, ci accorgeremmo come il “reflusso” del voto potrebbe restituire molti altri elementi rilevanti, degni anch’essi di attenzione e di pubblico interesse. Se in molti, infatti, hanno interpretato il voto degli italiani come una protesta nei confronti del Governo Renzi, in pochi hanno hanno considerato che la stessa protesta potrebbe essere rivolta anche nei confronti delle diverse istituzioni schieratesi a favore della riforma costituzionale.
Prendiamo, ad esempio, il caso della Cisl. I tesserati di questo sindacato hanno votato a favore del Sì o del No? E’ possibile che nel malcontento degli elettori sia racchiuso anche quello di molti lavoratori nei confronti del loro sindacato di appartenenza, tanto da andare contro le indicazioni di voto da questo espresse?
Se la risposta fosse affermativa, non sarebbe anche questo un dato importante da registrare all’interno di quel processo di scollamento, sempre più evidente, tra le istituzioni e le persone che esse servono e rappresentano? Sarebbe stato bello se i sindacati Cisl e Cgil, schieratisi rispettivamente per il Sì e per il No, si fossero confrontati pubblicamente, per motivare le loro scelte alla luce delle conseguenze che la Riforma Costituzionale avrebbe potuto produrre per i lavoratori.
Quando Renzi ha annunciato le proprie dimissioni ha elencato il numero dei provvedimenti e delle leggi approvate dal suo Governo, tra queste l’ importantissima legge contro il caporalato. Quell’elenco non ha forse tuonato come una grande contraddizione rispetto alle ragioni di lentezza nel procedimento di approvazione delle leggi, poste a fondamento della riforma di trasformazione del Senato?
Comunque sia, palla al centro e si riparte. Da dove?
I cittadini italiani sembrano aver imboccato la strada giusta: quella della presenza e non delle urla; quella di chi vuole giustamente partecipare e contare nel Paese e non quella di chi vuole contare esclusivamente i soldi in tasca all’altro.
In Italia, purtroppo, sotto il marchio del populismo o della semplice demagogia, si è diffusa la pessima moda di fare i conti in tasca ai politici, ai magistrati, ai funzionari pubblici, e così via. Ovviamente tutto ha un limite e, in tempi di crisi economica e di spending review, determinati compensi non possono che indignare, non solo per la distanza che creano rispetto a quelli di altre categorie professionali, forse più importanti per il ruolo che svolgono, ma anche per la loro “misura” oggettivamente inspiegabile.
E’ indecoroso lo spettacolo che va in onda nelle diverse piazze italiane, quelle intercettate dalle trasmissioni televisive che si nutrono del malcontento della gente per portare consenso alle forze politiche di appartenenza. Se, però, da un lato assistiamo alle urla e al malcontento della gente comune contro quella che viene definita “la casta”, dall’altro assistiamo ad una classe politica che fa i conti in tasca al povero, adottando misure una tantum che possano servire a migliorare le loro condizioni di difficoltà. Tutti ricorderemo trasmissioni televisive interamente dedicate a cosa avrebbero potuto fare gli italiani con 80 euro in più o addirittura con l’anticipo del TFR in busta paga.
La “moda” del fare i conti in tasca all’altro, messa in campo soprattutto da coloro che si candidano ad essere i difensori dei più deboli, contro la casta, appunto, non produce altro che l’affermazione della debolezza del povero di fronte al potente, il quale si servirà della condizione di povertà e di malcontento per usare ancora di più il suo potere, limitando la libertà di scelta delle persone.
Gli italiani, se vogliono davvero cambiare, devono imparare a vivere la loro povertà con dignità e non ad urlarla al potente, per conclamare ancora di più ai suoi occhi la propria debolezza. Questo non vuol dire arrendersi alle ingiustizie o non provare a migliorare la propria condizione, ma ogni battaglia che serva a favorire l’inclusione sociale non può abbrutire il combattente.
Il referendum ha dimostrato che, povertà o ricchezza, il popolo è sovrano comunque e ha un potere che può e deve esercitare responsabilmente, soprattutto contro il populismo e contro la demagogia, sotto qualsiasi colore questi si presentino. Tutti invocano il cambiamento e imboccare questa strada potrebbe aiutare questo processo.
Una riflessione impopolare ma che, forse, varrebbe la pena di accarezzare.