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domenica, Settembre 8, 2024

Nel silenzio assordante dei Neet

“Come mai non scoppia la rivoluzione dei Neet, soprattutto quando essi si avvicinano a essere la metà della  popolazione?”

E’ questa una delle domande che il giornalista Salvatore Carrubba ha lanciato giorni fa dalle colonne de Il Sole 24 Ore, riflettendo sia sugli ultimi dati dell’indagine 2017 sull’occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa, pubblicato dalla Commissione europea, sia sulle osservazioni acute di un lettore.

Nel momento in cui venne definito l’acronimo inglese NEET, “not (engaged) in education, employment or training”, collocatosi molto bene anche nel nostro vocabolario, nessuno avrebbe potuto pensare che la sua pronuncia avrebbe ricordato molto il Niet russo, il termine che comunemente viene utilizzato per esprimere un rifiuto categorico. Di primo acchito potrebbe apparire quantomeno strano, inusuale, forse insensato, il collegamento tra Neet e Niet, solo per una semplice comunanza di suoni. Il punto è che la comunanza va ben oltre il suono e riguarda, invece, il significato che questi due termini esprimono: la rinuncia ad un impegno la prima e un rifiuto netto la seconda.

Un mix esplosivo, insomma, che ci aiuta a guardare attraverso una lente di ingrandimento, a prendere contezza di cosa il fenomeno NEET rappresenti per il nostro Paese, ossia una sottrazione, nell’oggi, di linfa vitale, di una presenza, di un impegno e di una responsabilità sociale, a motivo di un “abbandono partita” da parte di coloro che rientrano tristemente nella categoria.

Per il nostro Paese, è bene sottolinearlo, al di là della percentuale distribuita nelle diverse regioni dello stivale.

Proprio così! Chi non studia, chi non cerca un impiego, chi non è impegnato in percorsi di formazione o aggiornamento professionale, ha sostanzialmente abbandonato la partita. Le ragioni che si celano (mica poi tanto) dietro questo abbandono sono tante (leggi anche “Cosa nasconde l’universo degli inattivi?”), non sono vaghe e tantomeno poco importanti. Vero è, però, che il silenzio o l’accettazione supina di una realtà realisticamente difficile non può essere l’ultima parola.

Allora, chi scriverà il finale? Perchè un finale dovrà assolutamente esserci! Non vorremo mica abituarci alla presenza dei Neet, magari coccolarli, compiangerli, continuare a parlare di loro nei talk show televisivi, mentre i diretti interessati sconfinano dal limbo al più completo oblìo?

Il tono, volutamente provocatorio, è sintomo di una forte preoccupazione, della consapevolezza che se non saranno proprio questi giovani e giovanissimi (Neet letto al contrario diventa Teen) a destarsi, a invertire la rotta della loro vita, sarà possibile fare davvero poco uscire dal guado.

Dalla ricerca “Nel Paese dei NEET”, curata da Walter Nanni (Ufficio Studi di Caritas Italiana) e da Alessia Quarta (Università del Salento), presentata lo scorso novembre in occasione di “Neeting”, un convegno nazionale sui NEET promosso dall’Istituto Toniolo di Studi Superiori, in collaborazione con la Fondazione Cariplo e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, emerge il seguente ritratto: “I Neet sono ragazzi che hanno il mito del posto fisso ma non hanno ambizioni professionali e progettualità lavorative; alle loro spalle c’è una debole genitorialità individuata tra le cause di percorsi formativi incompleti e frammentati. Qualche responsabilità viene attribuita anche alla scuola, incapace di accogliere e di riorientare le scelte dei ragazzi. I ragazzi Neet non riescono a proiettarsi: davanti a loro sembra esserci da una parte un vuoto privo di immagini, dall’altra un immaginario stereotipato costruito intorno a famiglia, figli e impiego fisso”.

La lettura di questo ritratto non può non confermare la preoccupazione appena espressa e, nonostante la ricerca “Nel Paese dei Neet” suggerisca comunque delle proposte di intervento, tutte molto importanti, quel “vuoto privo di immagini e di un immaginario stereotipato” e quel “non hanno ambizioni professionali e progettualità lavorative sollecitano due domande ben precise: può essere aiutato chi non percepisce più di essere in pericolo? Da chi o da cosa dipende questa mancata percezione del pericolo?

Le cause risiedono nella persona interessata dal problema e nel contesto sociale, inutile nasconderlo. Palla al centro e riaccendiamo tutti la partita? Non serve parlare di rivoluzioni. E’ utile, invece, parlare di rinascita.

La nascita è accompagnata dall’urlo, dal pianto della creatura che viene al mondo. Ecco, c’è proprio bisogno di un ritorno alla vita, di un urlo che infranga un silenzio non più sopportabile e sostenibile, per scongiurare così il pericolo che quel NEET si trasformi davvero in un definitivo NIET.

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