Servono parole nuove per raccontare un copione che si ripete nel tempo. Serve assolutamente uno sceneggiatore che metta mano al testo per modificare il finale di un film visto troppe volte. Vite spezzate in modo violento e in contesti in cui né la morte né la violenza dovrebbero tendere agguati vigliacchi. Datore di lavoro che accorre sconvolto, colleghi affranti, famiglie distrutte, istituzioni che faticano a commentare l’accaduto senza scadere nella più vuota ripetitività. E ancora, gli indagati: in questo caso il datore di lavoro e il responsabile alla manutenzione del macchinario.
Molta è l’indignazione. Le parole nuove, utili per raccontare e riflettere, devono sgorgare da un alfabeto che ha bisogno di scrollarsi di dosso la polvere dell’inerzia.
Il macchinario che, secondo le ricostruzioni in corso, ha risucchiato Luana, è un orditoio. Abbiamo scoperto in questi giorni cosa sia, come funzioni, quanta attenzione richieda l’uso, proprio per i pericoli che potrebbero derivare da una disattenzione dell’operatore o da un guasto. I macchinari in uso oggi nelle fabbriche non sono quelli di ieri. La tecnologia ha contribuito a migliorare la loro efficienza e a rendere più sicuro il lavoro dell’uomo. Infatti, sempre dalle indagini in corso, emerge che l’orditoio, nel caso di un avvicinamento incauto da parte dell’operatore, dovrebbe bloccarsi automaticamente grazie ad una fotocellula.
Le domande sono tante e occorre formularle in modo corretto.
Le più immediate: il macchinario funzionava correttamente? La manutenzione era stata eseguita? Luana aveva un piano di lavoro che si protraeva ben oltre le ore previste dal CCNL? Che tipo di contratto aveva accettato? Data la giovane età della lavoratrice io proverei anche a chiedermi se ella avesse ricevuto una formazione adeguata all’ utilizzo del macchinario. Emerge proprio in queste ore che Luana sarebbe stata assunta in fabbrica con un contratto di apprendista. Se fosse confermato, accanto a lei avrebbe dovuto essere presente un tecnico specializzato.
Ci sono mestieri che impariamo lavorando: cameriere, porta bibite, commessa e altri. Poi, però, ce ne sono altri che prevedono l’utilizzo di macchinari complessi. In questo caso non credo siano sufficienti la buona volontà, l’impegno e l’attenzione per non correre pericoli.
E allora da questo punto provo a formulare ulteriori domande: che formazione riceve chi inizia a lavorare in un’azienda tessile? È una formazione sommaria, sbrigativa, perché le commesse sono tante da portare a termine, oppure è specifica e sempre in aggiornamento? Le eventuali inefficienze del macchinario erano state denunciate al datore di lavoro? Luana aveva condiviso preoccupazioni in famiglia o con i colleghi? E il datore di lavoro, anche lei donna, anche lei con lo stesso nome, Luana, con quale idea di lavoro ha messo in piedi la sua azienda? Quale formazione ha ricevuto a sua volta?
Certamente da questa vicenda drammatica emergeranno ancora una volta diverse responsabilità. Da qualche parte ho letto che quanto accaduto alla giovane lavoratrice sembra averci catapultato in un periodo storico molto lontano, negli anni della della Rivoluzione industriale. All’epoca i macchinari a disposizione erano diversi, certamente meno efficienti. Non solo. Ricordiamo quello come un periodo contrassegnato anche da assenza di tutele e grandi privazioni.
Il lavoro è anche strettamente disciplinato. Il regolamento, una sorta di severa e vincolante ‘legge interna’della fabbrica, definisce le condizioni di assunzione e di licenziamento (durata della giornata lavorativa, scala salariale, multe per assenze e ritardi…); regola i comportamenti (le sospensioni legittime per pulire le macchine o per il pranzo, gli spostamenti all’interno della fabbrica o l’entrata e l’uscita dalla fabbrica…); elenca i divieti (parlare, cantare, scherzare…); definisce le sanzioni per gli errori o le mancanze (mancato rispetto degli orari o delle gerarchie); stabilisce le modalità di controllo e di perquisizione (contro i furti). I regolamenti non nascono da un accordo fra lavoratori e imprenditore: non sono contratti collettivi, valgono all’interno della specifica fabbrica.
Fatica, lunghi orari (12-16 ore giornaliere), ritmi lavorativi estenuanti, turni continui, disoccupazione ricorrente, infortuni, malattie, epidemie di colera o tubercolosi, reddito insufficiente, assenza di ogni forma di tutela (indennità di disoccupazione, pensione, assicurazione…), ambienti malsani fuori e dentro la fabbrica caratterizzano un’esistenza operaia specificatamente segnata dalla precarietà e dallo sradicamento dai tradizionali riferimenti culturali e che oscilla fra la pura sopravvivenza e la miseria e l’indigenza più nere (Il lavoro all’epoca della prima industrializzazione – Treccani)
Tante “cose” in meno rispetto ad oggi. Eppure è proprio da quel meno che sono iniziate battaglie autentiche per il diritto al lavoro sicuro e giustamente retribuito. Il “di più” che abbiamo oggi, quanto meno sulla carta, proviene da quel meno del passato che gli uomini hanno saputo colmare con la loro forza, paura, coraggio e libertà. Nonostante tutto, nonostante questo, resta ancora molto da fare, molte vite da salvare. Ecco che ritorna l’immagine dell’alfabeto che ha bisogno di essere ripulito dalla polvere dell’inerzia dalla quale è ricoperto.
Molte parole scritte, che compongono testi di legge a tutela del lavoratore, hanno bisogno di tornare a vivere ed essere vissute. Serve un di più di coraggio e libertà, altrimenti cosa ce ne facciamo di quel “di più” a disposizione? E soprattutto, come lo tramanderemo alle generazioni future? Intanto, anche oggi, alle prime luci dell’alba riceviamo una nuova tragica notizia. Ancora un morto sul lavoro: questa volta a Busto Arsizio: un operatore muore schiacciato dal tornio meccanico alla Bandera, azienda di estrusione di materie plastiche.
Nessuna legge, seppure perfetta, potrà tradursi in vita senza il nostro consenso.