di *Cesare Perrotta
L’uomo per sua natura è un essere relazionale: si costituisce e si nutre di relazioni consentendogli di individuarsi e di socializzare, praticamente, in ogni contesto di vita. Una sorta di imprinting che si raffigura sin dalla nascita e, via via, in tutte le fasi dell’esistenza.
C’è una caratteristica che accomuna queste relazioni che, senza ombra di dubbio, possiamo denominare di “aiuto”. L’essere in relazione con l’Altro, più o meno consapevolmente, pone ciascuno in un’azione (reciproca) di aiuto, di sostegno, di cura, evidenziando il non poter bastare a se stessi.
I vissuti con il mondo del lavoro, e per estensione ogni approccio relazionale, esprimono meglio questi concetti per il fatto stesso di ritrovarsi (quasi) quotidianamente in comunicazione con un qualche professionista: un medico, un insegnante, un funzionario, un artigiano, un formatore, … e, perché no, un sacerdote.
È in queste quotidiane relazioni che ciascuno opera per sé il distinguo tra professionista e professionalità.
Il professionismo è ascrivibile al sapere, all’essere abili-competenti in un qualche campo. È l’aspetto iniziale che pone il professionista in una sorta di visibilità-notorietà per ciò che sa fare. Si tratta di abilità che nel tempo devono poter essere accresciute in una dimensione prospettica al fine di evitare ogni improvvisazione o, peggio, di perpetuare nel tempo interventi indifferenziati, sempre uguali a se stessi.
La professionalità fonde al sapere il saper essere: quell’insieme di qualità personali (umane, dal mio punto di vista) che nell’approccio con l’Altro restituiscono ascolto, comprensione, partecipazione alle vicende altrui, nuova consapevolezza. Un incontro non autoreferenziale, di autocompiacimento professionale, quanto di servizio con e per l’Altro.
È l’integrazione di questi due aspetti che consente a ciascuno di affidarsi, di scegliere, tra un professionista e un altro. Là dove meglio la Persona si percepirà “ri-conosciuta” le consentirà di protendere verso una figura piuttosto che un’altra, attivando anche un percorso di responsabilità verso se stessa.
L’esempio migliore mi viene dal mondo della scuola. Lo studente che si sente riconosciuto, ascoltato nei suoi bisogni, valorizzato nelle sue competenze, supportato nei suoi limiti, si apre ad una relazione di apprendimento (ed anche educativa) con maggiore partecipazione sia in termini di ascolto dell’insegnante che di studio di quella materia.
È l’atteggiamento e l’essere autenticamente competenti che dissipa questo dualismo.
Generalmente competenza richiama al concetto di abilità, al saper fare, sia essa pratica o intellettuale. In questa accezione, mi piace pensare alla competenza come la capacità di problem solving (l’OMS la qualifica come una delle life skill irrinunciabili per il benessere individuale e relazionale): saper leggere una difficoltà-richiesta, contestualizzarla, individuare più strade per la soluzione della stessa.
Nell’ottica delle relazioni interpersonali, quelle che dovrebbero caratterizzare anche quelle lavorative, questa sola interpretazione della parola competenza non può bastare. Nell’agire professionalmente l’azione del prendersi cura, in contrapposizione all’oggi individualista-autoreferenziale, competenza assume il significato (derivante dal latino cum-petere) “mi compete”, mi appartiene, mi spetta: la scelta di lasciarsi interrogare da quella specifica situazione, da quella specifica Persona e da tutto ciò che essa porta con sé. Un prendere a cuore e un saper essere che meglio traducono ogni professione in partecipazione, coinvolgimento, cura, alle vicende relazionali (di aiuto) dell’uomo.
*Counselor Professionista Avanzato, nell’ambito delle relazioni di aiuto a privati e formatore nei campi socio-educativo e aziendale.