Qualche giorno fa abbiamo ricordato la Giornata Internazionale della Donna e tante sono state le manifestazioni di pensiero, e non solo, attraverso le quali abbiamo continuato a discutere di un tema ancora aperto come il divario retributivo tra donne e uomini, il cosiddetto gender pay gap. Un divario di genere che il rapporto Eurofound, The gender employment gap: Challenges and solutions, ha provato ad analizzare sotto l’aspetto della perdita economica che esso comporta per l’Unione Europea, ponendo anche l’accento su come sugli effetti sociali della partecipazione femminile “vanno al di là della sfera economica e riguardano il benessere delle donne e la società nel suo complesso”.
Anche le tre maggiori sigle sindacali del nostro Paese, CGIL, CISL e UIL, hanno aderito alle iniziative promosse dalla CES (Confederazione europea dei sindacati) che, come tema annuale, ha posto proprio la disparità salariale tra uomini e donne.
Tuttavia, oggi, non possiamo negare come proprio il termine disparità presenti delle sfumature diverse rispetto a qualche annetto fa. L’aumento delle disuguaglianze sociali, non solo di genere, ci impone di avere una visione più ampia della realtà, non per sminuire il tema, sempre esistente, del gender pay gap, bensì per affrontarlo con nuovi strumenti e nuova consapevolezza, all’interno di una cornice sociale completamente cambiata.
Possiamo continuare a parlare di gender pay gap oppure dobbiamo imparare a trattare questo aspetto del lavoro all’interno di un generation rights (at work) gap?
Prendiamo, ad esempio, l’indagine ”Avere vent’anni e pensare al futuro”, compiuta nell’ambito del progetto “Job to Go, il lavoro svolta!”, realizzato dalle Acli di Roma e dalla Cisl di Roma Capitale e Rieti. Il 65{cbd9c1faeba5711866380b8c9dfc181d05577eef0adb5294792d39edd3158544} del campione intervistato (un campione di 1000 partecipanti di età compresa tra i 16-29 anni) ha dichiarato di essere disposto a rinunciare a contratti regolari e diritti del lavoro in cambio di una qualunque occupazione. E’ quanto mai allarmante pensare che diritti come indennità di malattia, ferie, maternità possano essere quasi interpretati come degli ostacoli nella ricerca e nell’ottenimento di un lavoro. Ed invero, in un tale contesto, appare quanto mai evidente come la disparità salariale non costituisca, per le nuove generazioni, un aspetto cruciale della loro condizione lavorativa.
I Millenials sono disposti a rinunciare ai loro diritti pur di trovare un lavoro, i riders di Foodora reclamano una giusta retribuzione aprendo uno spaccato su una realtà (innovativa nella forma più che nella sostanza) che non siamo ancora pronti ad affrontare e regolamentare, e così via.
Questo vuol dire forse che è tempo di arrendersi e di gettare alle ortiche tutte le conquiste raggiunte? Vuol dire forse che il gender pay gap è destinato a diventare un argomento desueto, un destino al quale sembrano essere candidati tanti altri diritti sul lavoro? Assolutamente no, dal momento che tra quei Millenials, tra quei riders, ci sono anche tante giovani che aspirano a diventare, come giusto che sia, donne realizzate anche professionalmente. Il punto è che, anzitutto, quelle giovani donne devono essere messe nelle condizioni di poter ambire ad un lavoro, ad un regolare contratto, per non rimanere imbrigliate nella folta foresta del sistema dei voucher che, assurdo ma vero, non producono disparità di genere dal punto di vista salariale (attualmente il costo singolo del voucher è il medesimo per uomo e donna).
In sostanza, i problemi e le sfide che abbiamo di fronte “chiedono” di essere affrontati secondo una prospettiva generazionale, non di genere.
L’aumento delle disuguaglianze sociali, che investe le attuali e future generazioni, potrebbe essere letto sotto tante altre prospettive. Una su tutte è l’aumento della povertà che ha “costretto” il nostro Paese a dotarsi di misure, seppure timide, di contrasto ad una piaga, purtroppo dilagante, impensabile appena dieci anni fa. Ed è sempre da questa piaga che bisogna ripartire per una visione nuova del lavoro e dei diritti del lavoratore. Non si tratta di fare passi indietro, ma di aspettare chi è rimasto indietro, suo malgrado, in una società che ha compiuto passi in avanti dal punto di vista del progresso tecnologico e passi indietro dal punto di vista dei valori umani, con tutte le conseguenze del caso.
Nessuna stolta rivendicazione, nessun pietismo, nessun assistenzialismo, nessuno slogan da accaparrarsi per un misero pugno di voti, in una arena sempre più selvaggia.
Solo mite buon senso (da parte di tutti) e autentica voglia di farcela.